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Nel 1978 la “Sala grigia” del Palazzetto dell’arte di Foggia ospitò la prima mostra personale di Mario Raviele. Una mostra-verifica, scrisse Mario Ricci nel testo di presentazione, con la quale l’artista dimostrava di “essere alla ricerca del senso profondo della vita, secondo sentimenti intuiti, espressi senza alcuna esasperazione, con toni ancora contenuti in un sottofondo figurativo”. Quella mostra, tuttavia, non solo confermò, attraverso una cinquantina di dipinti, la maturità della sua arte, già sottolineata da numerosi riconoscimenti ottenuti in alcune rassegne, ma rivelò anche che essa, coniugata tra figurazione e astrazione geometrica, era frutto di una riflessione teorica pienamente consapevole. Accanto al testo di Mario Ricci figurava infatti una sorta di autopresentazione dello stesso Raviele con la quale l’artista esplicitava il filo conduttore di tutta la sua opera (“l’angoscia dell’uomo contemporaneo che vive in una società alienante e alienata, fatta di condizionamenti, di privazioni, di repressioni”)
espresso coerentemente con un uso dinamico e segnico dei colori e con figure, realizzate su più piani intersecantisi, che “sembrano divincolarsi” dagli schemi preordinati del mondo. Fin dagli esordi, insomma, da quando era studente presso l’Accademia di BBAA di Napoli e partecipava alle lotte per il rinnovamento della società e delle istituzioni, anche culturali, Mario Raviele ha praticato il campo di una ricerca sul linguaggio pittorico che fosse innovativa e superasse in termini problematici le comuni distinzioni antitetiche, figurativo/non figurativo, al fine di realizzare forme e immagini, sintesi personale delle elaborazioni linguistiche più avanzate, che fossero comunque portatrici di senso e dessero corpo al grido di giustizia e di libertà proveniente dall’umanità più dolente ed emarginata. Raviele, ho avuto modo di sottolineare già in anni lontani (era il 1981), “sia pure tra dubbi e lacerazioni, impegna tutto il suo essere alla ricerca di un nuovo segno e di una nuova organizzazione dello spazio che esprimano a pieno le proprie scelte di vita. Sicché egli seziona in parti geometriche le tele creando volumi e trasparenze, facendo scivolare fasci di colore di diversa luminosità su immagini (uomini, donne, bambini, agglomerati urbani) che subiscono il processo di adattamento, di stiramento, di ‘defigurazione’, del nuovo spazio in cui sono collocate per raccontare in tal forma le silenziose rassegnazioni, gli urli strazianti o anche le indignazioni civili, come ha scritto Salvatore Ciccone, della gente del Sud, cui Raviele appartiene, per nascita e formazione”. Una sorta di baconiana lotta con l’oggetto che 10 genera nelle sue opere tensione, movimento, processi di aggregazione e disgregazione delle forme, ma sempre al limite della riconoscibilità dell’oggetto/figura, perché fosse chiaro che le sue elaborazioni non erano mere esercitazioni metalinguistiche, ma afferivano a ben precisi contenuti.
Certo, c’è la riflessione sulla pittura, sul suo linguaggio, sul modo con il quale segni e colori sono organizzati sulla tela, c’è anche il riflesso del gesto dell’artista, che diventa specchio della sua tensione emotiva e del suo pensiero, ma tutto questo conduce anche all’oggetto, alle ragioni (individuali, politiche e sociali) per le quali la tensione dell’artista si è rovesciata sulla tela. Tutto questo conteneva il “sottofondo figurativo” cui si riferiva Mario Ricci. Un sottofondo figurativo che si riallaccia a quella dimensione ampia della “nuova figurazione” di cui proprio in quegli anni parlava Enrico Crispolti (Fenomenologia di nuova figurazione, Napoli, 1975) e cioè di “una nuova possibilità di comunicazione e di concretezza immaginativa, veramente aperta a tutte le necessità semantiche; e chi pratica la “nuova figurazione” crede, esplicitamente o implicitamente, nella possibilità di intervento attraverso l’immagine (dipinta o oggettualizzata, di riporto fotomeccanico, ecc…) nel contesto sociologico attuale”.
Per molti anni, e sicuramente per tutto il cosiddetto decennio “lungo” degli Anni Settanta, con le sue radici nel mitico e complesso “Sessantotto”, le “composizioni” di Mario Raviele sono state questo, rivelando uno spirito “militante”, di partecipazione attiva, anche attraverso la pittura, alla concretizzazione dell’utopia (termine in seguito ricorrente nei critici, in particolare Massimo Pasqualone, che si sono occupati del suo lavoro), cioè il sogno della realizzazione di una condizione umana di solidarietà. Per questo, importante era denunciare la realtà di un mondo di prevaricazioni, ingiustizie e soprusi. E la tela era il campo dove farlo emergere, attraverso l’immagine del corpo nudo di uomini e donne, lacerato, aggrovigliato, esasperato, realizzata con una violenza cromatica livida, accentuata da un contorno spesso e marcato, che quasi incatena le membra e ne sottolinea la sofferenza. Corpi, che mano a mano diverranno sempre meno riconoscibili, perché ridotti quasi a brandelli, e che nella loro tensione costruiscono e movimentano lo spazio, ora sulle diagonali ora su riquadri con unico fulcro. Di questa prima fase vorrei sottolineare una composizione dove una donna, il corpo di una donna, è raffigurata come un
11 Cristo crocifisso, intensa come un’opera di Rouault, un’opera “sacra” che denuncia le sofferenze e le umiliazioni delle donne. Ho citato quest’opera perché quella della condizione femminile e della necessità di realizzare una sostanziale parità tra uomini e donne, contro ogni forma di discriminazione e di violenza, sarà, come vedremo, una delle tematiche ricorrenti dei suoi lavori. Poco alla volta, con il passare degli anni, questa tensione sarà resa meno drammatica, perché il colore, che assumerà gradualmente una dominante calda stemperata dagli azzurri, con i suoi riverberi, quasi in un gioco degli specchi, e con le sue velature (ho parlato al riguardo, proprio con riferimento ad alcuni lavori di Raviele in cui traspariva anche, al limite della percezione, una reminiscenza di composizioni sacre rinascimentali, di “pigmentazione leonardesca”), mitigherà la percezione delle scomposizioni e ricomposizioni drammatiche delle figure nello spazio. Queste saranno meno evidenti, asciugate fino all’astrazione della loro forma. Sicché non è il dato figurale immediatamente visibile a dare emozioni ma sono queste, trasferite cromaticamente sulla tela ad evocare anche il visibile, o piuttosto, come sosteneva Paul Klee, la genesi del visibile. In questa operazione al limite tra astrazione e figurazione credo che ci sia l’originalità di molta parte della pittura di Mario Raviele (che non disdegna tuttavia ritorni al visibile e fughe verso l’astrazione pura), perché in essa ritroviamo buona parte del dibattito contemporaneo sulla percezione visiva, da Merleau-Ponty a Deleuze a Lyotard, e sulle diverse opzioni dell’esperienza estetica. Il punto di forza è dato dal fatto che l’elemento figurale presente, o i suoi elementi allusivi, non sono affatto
“rappresentativi” o narrativi, ma emozionali, e in tal modo ci conducono alla percezione della sostanza delle cose, dell’anima che le sorregge. E d’altronde, per un artista che voleva e vuole incidere sul reale, sulle sue mostruosità, cosa c’è di più efficace se non trasformare l’analisi del reale in emozioni per dare alla pittura, senza cadere nella propaganda, carattere psicagogico, perché rende chiaro ciò che altrimenti è incomprensibile?. L’insistere di Raviele sui “corpi” non è casuale, perché i
corpi non implicano soltanto una riflessione sull’interno del soggetto, ma sul rapporto interno/esterno. L’uomo, non è solo. Il corpo si protende nello spazio e si relaziona ad altri uomini e allo stesso paesaggio, naturale e urbano. Ecco gli altri orizzonti percettivi a cui ci conduce la riflessione di Raviele: le variazioni cromatiche, che si traducono in materiche, utopiche visioni di sublimi paesaggi, e le geometrie urbane, riquadri cromatici e segnici di muri d’abitazioni che rimarcano separazione. Cosa si cela al di là?. La dimensione sociale delle prime opere di Raviele si sposa a quella individuale, esistenziale, e diventa tutt’uno con essa. Perché 12 anche i luoghi che teoricamente dovrebbero essere quelli della sicurezza sono diventati stranianti, non luoghi, come direbbe Marc Augé, luoghi di incomunicabilità e violenze, come nei femminicidi. La pareti nascondono ancora una società maschilista e patriarcale che non riconosce alla donna, nella sostanza, non solo nella forma, la libertà. Ecco allora la necessità di invertire l’assunto freudiano dell’incompatibilità tra eros e felicità - perché il progresso sarebbe dato proprio dalla repressione degli istinti animaleschi - con la prospettazione di Herbert Marcuse, che si chiede perché mai non debba essere possibile la costruzione di una società non repressiva in cui l’eros ritrovato diventi costruzione di felicità e libertà complessive. Ed ecco la serie di dipinti Eros e civiltà, dove uomini e donne, con i loro corpi nudi si donano reciprocamente amore (“emozioni paritarie” titolerà un’altra serie di opere dallo stesso tema Raviele) come esseri liberi. Con Afrodite Raviele farà un passo ulteriore, passerà dalla tela ai materiali. Con legno, stucco e cementite darà forma tridimensionale alle magie figurative e alle trasparenze dei dipinti, facendoci penetrare i misteri del mito. “Omnia vincit amor et nos cedamus amori” (Virgilio). Ma è davvero così? L’utopia di Raviele, espressa in un bellissimo bozzetto, Il mondo salvato dalle donne e dai ragazzini, ricco di brio e felicità, nel suo festoso girotondo, non ha dubbi sulla possibilità che il sogno di una umanità che riconosca di essere nata dallo stesso seme (Siamo tutti nati dal seme celeste è un’opera di Raviele del 2014 ispirata dai versi del
De rerum natura di Terenzio) possa avverarsi. Ma l’uomo del nostro tempo è ancora quello che uccide i propri simili, la propria madre, la propria sorella, la propria compagna (Sandali e scarpette alate, 2019, ne sono una tragica metafora) e non si indigna per le stragi di migranti nel Mediterraneo (Drammatico Mediterraneo, 2016). C’è ancora molto da fare, allora, affinché il grado di civilizzazione dell’umanità, come ricordava Zygmunt Bauman, arrivi al punto da garantirci un futuro dove non ci sia più l’urlo inascoltato dell’innocente. Ecco perché il lavoro compiuto nell’arco di mezzo secolo da Mario Raviele è esemplare, perché con la sua arte non ha mai smesso di registrare, come un sismografo sensibilissimo, tutti i movimenti della nostra epoca dandogli forma adeguata.
La costellazione artistica di Mario Raviele
La vasta panoramica della produzione artistica di Mario Raviele, ospitata nella Sala esposizioni della Fondazione Monti uniti di Foggia, rappresenta una ricapitolazione del lavoro svolto dall’artista nei vari campi delle arti figurative in cinquantaquattro anni di attività, dal 1966 ad oggi.
Tralascio di parlare delle sculture, dei pur gradevoli reticoli urbani e delle tessiture astratte nelle quali il pittore porta alle estreme conseguenze la sua suggestiva sperimentazione cromatica, nonché dei raffinati disegni e dei libri d’artista con i quali Raviele investe il campo dell’intertestualità tra arte e letteratura, in particolare la poesia del Novecento, a riprova dell’ampiezza del suo universo culturale che fermenta la sua ricerca artistica.
Concentrerò la mia attenzione sulle sue “composizioni” pittoriche che alludono a forme di oggetti (inclusa la figura umana) reali che, tuttavia, vengono sottratti, mediante una serie di procedimenti compositivi, alla loro determinazione e consistenza oggettive ed alla loro collocazione spaziale.
La segmentazione, o disposizione, in numerose superfici delle evidenze oggettuali e delle figure antropomorfe produce un’ambiguità prospettica delle forme, una vasta libertà di aggregazione, per cui viene realizzata una compenetrazione degli oggetti e delle coordinate spaziali (e, vorrei aggiungere, temporali), una scissione e una nuova ricomposizione degli stessi.
D’altra parte, il movimento, suggerito o prefigurato dalla sinuosità delle linee e dalla torsione delle forme, sembra cristallizzato, fermato nell’attimo della visione, e da ciò promana quel senso di sospensione compositiva e temporale di cui si diceva innanzi.
Si indovina in queste operazioni pittoriche un vasto segnale di contraddizione e di divisione del mondo umano, indotto proprio dalle procedure di segmentazione e di frazionamento delle unità di rappresentazione.
Inoltre, la violenza, quasi espressionistica, delle evidenze gestuali e cinetiche, allude allo stato di disagio e di dissidio e, al limite, ad un’esasperazione situazionale conflittuale interiore e dei rapporti umani.
Luigi Paglia
Mario Raviele: La mia arte - Riflessioni nel tempo
FOGGIA FEBBRAIO 1978.
I miei quadri non hanno nessun titolo ma tante “composizioni” come i “capitoli” di tanti libri aperti. Nei miei lavori vedo un filo conduttore che unisce tutta la tematica espressiva. Su di essi non sono rappresentati episodi, ma trova posto l’uomo così com’è nelle società contemporanea con la sua carica umana. Non si tratta di figure che vogliono esprimere episodi casuali, ma una sequenza di emozioni come i tanti momenti della vita di ognuno di noi. Nei miei temi prevale la frammentazione, l’ansia, l’insicurezza dell’uomo contemporaneo che vive in una società alienante e alienata, fatta di condizionamenti, privazioni e repressioni. Guardando i quadri, le figure rappresentate sembrano divincolarsi dal mondo di oggi, dalla confusione di un’esistenza stereotipata, fatta di orari, di schemi preordinati ed ecco il contrasto tra l’ambiente condizionante e l’uomo che rifugge gli schematismi, gli ordini concettuali e culturali di oggi. La tecnica, credo, sia in piena armonia con l’espressione delle figure; esse si accompagnano tramite piani che si intersecano e si incrociano, rappresentati simultaneamente. Il valore dell’immagine pertanto trova riscontro in queste figure “drammatiche”, che forse non appagano la bellezza visiva, ma esprimono tutta la forza d’animo di quanti non intendono essere degli “oggetti” di cui la società può disporre a proprio piacimento, bensì “l’insieme”, cioè l’uomo con tutti i suoi affanni e le sue idee non espresse.
Le mie idee non nascono quasi mai da studi preparatori, ma sono esse stesse delle immagini che emergono nel momento in cui le dipingo, le elaboro, cercando di essere il più sincero possibile, usando colori, pennelli, spatole e altro con “violenza” e istintivamente, non sentendomi legato da preoccupazioni puramente estetiche, stimolato a volte anche da immagini casuali che si formano sulla tela, elaborandole in una fase successiva. Le mie idee vogliono esternare con linee, forme e colori tutta quella realtà ambientale e sociale in cui viviamo. Questa mia prima mostra personale, è il risultato di due anni di intenso lavoro, di ricerca per trovare una forma espressiva che sia coerente sotto il profilo estetico e contenutistico con il mio modo di essere, di sentire, di pensare.
Alcuni, nelle ultime composizioni, hanno trovato discordanti le figure dai paesaggi. Senza dubbio la differenza è data dalla diversità dei soggetti. Nelle figure c’è tutta una realtà umana rappresentata in modo dinamico ed aggrovigliato; dinamica e groviglio che nelle ultime opere ho cercato di “pulire e snellire” per avere un risultato più sintetico sul piano formale e contenutistico. Ho unito la struttura geometrica del paesaggio e la visione libera delle figure che in tal modo sembrano imprigionate. Nei paesaggi c’è più razionalità con segni, linee e fasce di colori verticali e orizzontali con meno libertà e casualità. Per me il punto di partenza è il paesaggio meridionale, fatto di case ammucchiate confusamente, ma che hanno una loro struttura geometrica, precisa ed armonica. Ho eliminato l’impostazione prospettica dei miei primi paesaggi di stampo impressionista ed ho risolto tutto su di un piano visivo a scacchiera, evidenziando delle zone luce, “giocando” con piani ombra, fatti di lievi passaggi chiaroscurali. Dopo numerose estemporanee, collettive e rassegne a cui ho partecipato, ritengo questa mostra una verifica con il pubblico per continuare nella ricerca espressiva, perché pur provenendo dalla scuola d’arte di Foggia e dall’Accademia Belle Arti di Napoli, non posso dire di aver, come si usa di solito pensare, ricevuto molto in fatto di studio o d’insegnamento. Queste scuole ormai sono superate come luoghi di cultura, devono trovare una diversa organizzazione perché possano seriamente e concretamente aiutare a formare i giovani, a far crescere la loro personalità e aiutarli nell’inserimento dei campi dell’arte come cultura operativa in divenire.
FOGGIA, FEBBRAIO 2019.
In questi anni il modo di fare arte è cambiato, come il corso delle esistenze di ognuno di noi, la mia pittura, durante gli anni settanta ha risentito di un travaglio personale unitamente ai forti contrasti sociali di quel periodo. Nelle composizioni supero forme spezzate, tagliate, scomposte e ricomposte sulla tela per arrivare al decennio successivo e oltre, ad immagini che denotano relativa calma con velature, trasparenze ed un ricercato cromatismo tonale complessivo. Il piacere della ricerca coloristica e formale, prosegue sempre con l’uso della pittura ad olio che preferisco ad altri mezzi e materiali espressivi perché mi permettono di lavorare nel medio e lungo periodo, con ritorni formali, correzioni e variazioni cromatiche che con altre tecniche non è possibile. Uso anche altre tecniche diverse, dall’acquerello alla grafica, alla modellazione, alla costruzioni di composizioni plastiche a bassorilievo-altorilievo e tuttotondo con materiali diversi come legno, filo di ferro, cartone, cartapesta, gesso, creta e patinature varie. In questi ultimi anni, ho cercato di esprimere quasi sempre, il mutamento ed i cambiamenti sociali, umani, personali e collettivi che viviamo. Mi hanno coinvolto emotivamente grandi manifestazioni per rivendicare lavoro, valori, diritti e dignità che un sistema neoliberista calpesta producendo ingiustizie, disuguaglianze e sofferenze in tutto il mondo, per questo ho sentito il bisogno di esporre in mostra un omaggio a Picasso che con la sua “Guernica” ha lasciato a tutti un monito e un grido di dolore contro la bruta violenza. Gli ultimi lavori hanno per tema la donna, sia come procreatrice di vita, amore, eros, civiltà e psiche che come vittima di violenze e femminicidi, a cui sono dedicati i “Rosoni” con sandali e scarpette alate in forma plastica unitamente ad una grande tela ad olio su tela. Mi auguro che questa mostra antologica sia un ulteriore verifica con il pubblico per proseguire nel mestiere più bello del mondo.
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